“(…) una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere. E non sarà mai una per sempre, ma di continuo ed infinitamente mutabile…” (Luigi Pirandello)
“Ognuno di noi è una luna: ha un lato oscuro che non mostra mai a nessuno” (Mark Twain)
Una narrazione continua che procede per istantanee, un racconto fatto di fermo-immagini (o, come si usa dire oggi, di “screenshot”) che si assemblano in un puzzle complesso, variegato ed in continua evoluzione: questo è l’universo femminile di Evita Andújar, protagonista indiscusso della poetica dell’artista andalusa, sempre in bilico – ma con sapiente padronanza dell’intenzione e del gesto – sul crinale che corre tra la figurazione e l’astrazione.
Le donne di Evita, come ella stessa ha più volte spiegato, sono nel contempo suoi alter-ego ed archetipi della femminilità contemporanea, racchiudendo in sé da un lato il riflesso delle molteplici sfumature dell’artista, dall’altro immagini paradigmatiche della Donna di oggi, immersa in una realtà complessa, inquieta, rutilante, che la costringe ad essere – parafrasando Pirandello – “una, nessuna e centomila”, in perenne dialettica con la mutevolezza dei rapporti umani e la fugacità dell’esistenza.
Questo senso di inafferrabilità e di provvisorietà, dal quale nessuno di noi è immune, si traduce sulle tele di Evita trasfigurandone evidentemente l’elemento protagonista, lei, la donna: pur essendo innegabilmente il centro della scena, come accade nella tradizione del ritratto, la figura femminile perde la propria identità, che spesso si liquefà nel dominio della materia pittorica sull’immagine (come in Stolen selfie 69 o Brezza), a volte si cela o si sottrae volutamente (ad esempio, in Stolen selfie 45 o Nascondi ciò che non sei), altre volte, infine, si sdoppia in riflessi parziali di sé che non restituiscono mai un identikit definito (Stolen selfie 56 o Nel bianco di domani).
Il risultato finale, agli occhi dell’osservatore, è quello di un racconto sospeso, cristallizzato in un frammento di presente che non dà risposte, in cui la solitudine della donna – nei dipinti di Andújar non vi sono mai personaggi di contorno, neppure sullo sfondo – diviene simbolo e personificazione dello straniamento del mondo di oggi. In questo senso, viene quasi naturale il parallelo con le donne di Edward Hopper, maestro del Realismo statunitense del XX secolo: è come se le tele di Evita, che hanno un sapore quasi cinematografico, di fotogrammi di un film girato in interni, narrassero la nostra crisi personale, la nostra intrinseca solitudine. Osservare i suoi quadri ha un effetto quasi catartico: è come guardarsi riflessi dentro uno specchio che ci mostra per come siamo, offrendoci un’occasione per comprenderci meglio nella nostra condizione esistenziale.
Eppure, nelle tele dell’artista c’è sempre un elemento di speranza, una tensione tra lo spazio fisico, il tempo e le emozioni, una scintilla che ci induce ad interrogarci sul “cosa” e sul “perché”: l’accuratezza della resa di certi particolari nell’ambientazione (che rappresentano per lo più ambienti domestici borghesi), l’utilizzo mai casuale della luce e del colore (i blu intensi, i rossi accesi, il bianco baluginante), le pose o la gestualità delle figure che non appaiono mai passivamente statiche, ma piuttosto percorse da un’irrequietezza sotterranea composta e controllata, ci suggeriscono una storia che ancora deve essere scritta, una chiave di lettura “altra” che affiora attraverso i diversi livelli interpretativi dell’opera, una verdad muda che preme inesorabilmente per avere voce.
Raffaella Salato